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No. 2547 hide watch expand quickreply [Risposta]
Una ragazza si stava masturbando sul letto, e i piedi erano sotto la coperta. Il cane della famiglia si avvicina e sale sul letto, riuscendo a cogliere in qualche modo ciò che stava succedendo, e si mette a cercare di fottere la coperta.
La ragazza vuole fermarlo, però sta per avere un orgasmo.
Il cazzo del cane si trova improvvisamente tra le sue dita dei piedi, lei si ferma un attimo e cerca di toglierlo.
Ci pensa su un attimo e trova che ciò che sta accadendo in realtà le piace.
Riprende a sditalarsi e inizia a toccare la pancia del cane con il suo piede, poi il cane ricomincia a inserire il cazzo tra le sue dita. Lei finisce di masturbarsi con un orgasmo intenso, poi usa i piedi per massaggiare il cane, per poi andare in bagno camminando sui talloni per pulirsi i piedi.
2 posts omessi. Clicka Risposta per vederli.
>> No. 2551
>>2547
Secondo me sei stato troppo diretto, stile troppo giornalistico. Prova a dettagliare maggiormente.
>> No. 2552 SALVIA!
È una merda di copypasta io bono.
>> No. 2553
>>2547
Bukowski, sei tu?
>> No. 2555
me l'ha fatto venire d'adamantio
>> No. 2564
scritto coi piedisporchi di sperma


No. 2544 hide watch quickreply [Risposta]
Vani e brevi,
mortali tra gli eterni
scalpitano e muoiono i plebei
disidratati dalla fretta;
gli artisti e i saggi, - buon sensati,
si allontanano dallo scempio e mirano al domani.
Corda tesa fra oltreuomo e bestia io
barcollo e tremo
come un’insipida verità.
>> No. 2557
Linfa vitale.
Un po' più Nietzsche qui, che non fa mai male. Grazie.


No. 2556 hide watch quickreply [Risposta]
In un'epoca di grandi rivoluzioni, grandi uomini, grandi conquistatori, doveva nascere una persona come me.
Diversa da tutti, sconosciuta, ma destinata a perdurare nelle ere, per infiniti eoni.
Ho donato tutta la mia vita alla ricerca, alla conquista di un potere superiore.
Ho attraversato il deserto insieme a mille demoni, visitato città inesistenti, letto libri mai scritti.
Mi è stato insegnato da qualcosa venuto prima dell'uomo stesso tutto ciò di cui avevo bisogno.
Sono tornato a casa, ma non era quello il mio posto. Dovevo fuggire.

Raggiunsi Dimašq più di dieci anni or sono; e in questa magica notte di luna piena, ho finalmente terminato la mia opera, il mio capolavoro.

Il frinire di mille cicale sotto il mio portico non può che farmi rimembrare il latrato dei demoni da cui sono sempre fuggito. Che suono evocativo. In effetti, in tutti questi anni di stesura, non avevo mai pensato ad un titolo.

L'Al-Azif.

Appropriato.

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No. 2540 hide watch quickreply [Risposta]
Aprii gli occhi nel bel mezzo della Zona di Comando allestita in fretta e furia nel bel mezzo del deserto di Gartrand II.
Tra le tende color sabbia e le casse di munizioni, facevano capolino all'orizzonte le enormi costruzioni dei Gartranii.
L'effetto era spaventoso, sembrava di essere nel deserto di Sol III, solo che al posto delle piramidi si ergevano giganteschi cubi color madreperla, attraversati da enormi linee squadrate di cristallo azzurro, il disegno formato dalle linee mi ricordava quello del rame sui circuiti stampati che avevo visto sui libri di storia terrestre antica, non riuscivo a non chiedermi se la funzione non fosse la stessa anche in quei giganteschi cubi.
A cosa sarebbe servito, comunque, farci passare dell'elettricità in mezzo? Per quanto ne sapevamo, probabilmente erano stati costruiti milioni di anni fa, quando i maledetti abitanti di questo pianeta erano ancora poco più che cavernicoli, non è difficile immaginare che usassero il cristallo blu come “finestra” per poter meglio venerare le due stelle binarie che, in questo momento, ci stavano friggendo il culo con i loro quarantacinque gradi celsius.
-Se hai finito il giro turistico di questo cazzo di deserto stellare, vieni a prenderti il fucile, coglione!-
La voce veniva dalle mie spalle, era un grosso tenente negro, probabilmente era l'unico rimasto a distribuire armi e razioni nella zona di comando.
-Numero di matricola?-
-X65795, Signore, e non mi chiamo Coglione, signore, sono il Caporale Jørg, al suo servizio.-
-Perfetto, George, ora muovi il culo, prendi il tuo equipaggiamento del cazzo senza rompermi i coglioni e vai a farti fare il culo da questi fanatici del cazzo-
-Signorsì, Tenente, buona giornata anche a lei, Tenente-
Lo salutai con un sorriso, mentre bofonchiava qualcosa che suonava incredibilmente simile a “coglione” alle mie spalle.
Il primo passo era recuperare il fucile d'assalto standard, una cassa aperta era sempre a disposizione di chiunque avesse distrutto o perso il suo.
L'XM97 era fantastico, fatto sulla terra con veri metalli estratti dal suolo, resistente ed affidabile, sparava sia proiettili in piombo vecchio stile che cariche laser ed elettriche antiscudo, era disponibile anche nella variante “Sniper”, ma non me ne sarei mai fatto un cazzo, vista la mia mira pietosa.
Granate, caricatori e proiettili erano più macchinosi, bisognava scoperchiare diverse casse, alcune marchiate come “Pezzi di ricambio” o “Riviste per il fronte” dall'intelligence terrestre, in un vano tentativo di farne trafugare di meno, il traffico d'armi e proiettili era un crimine parecchio comune di questi tempi.
Alloggiai le granate a frammentazione e le granate EMP nel cinturone tattico, ce ospitava anche metà dei miei caricatori già pieni, l'altra metà era comodamente divisa tra i tasconi dei pantaloni color “Sabbia di Gartrand” e quelli del giacchetto, fantasiosamente colorato nella stessa tonalità ocra chiaro.
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>> No. 2554
Torno dopo un anno su /scr/ e ci trovo una delle cose migliori che abbia letto su diochan.
Senza commenti.
Se sei ancora in giro, scrivi moar.


No. 2541 hide watch quickreply [Risposta]
J. aprì gli occhi.
La prima cosa che vide fu un cielo color carne, che emanava una luce soffusa e leggermente pulsante. Le nuvole erano compatte e fisse, scure come croste coagulate da tempo, e percorse da impercettibili venuzze rosse.
Capì di trovarsi supino sul terreno polveroso. Mentre si rialzava, diede una prima occhiata intorno a sè.
Si trovava in quella che sembrava una città, in mezzo a una via. I palazzi, che non superavano i tre piani, sarebbero stati di un colore giallo sporco, se non fosse stato per la luce rossastra che bagnava ogni centimetro del suo campo visivo. Guardando dall'esterno, le finestre davano su un'oscurità vibrante che attirava stranamente lo sguardo. Frammenti scuri di tetto colavano dal bordo superiore, e crepe frastagliate percorrevano le facciate come rughe, mentre le porte erano ammutolite da bavagli di legno e chiodi.
In lontanza, al di sopra dell'orizzonte, la sagoma di un campanile disegnava il proprio profilo contro il cielo rosa pulsante. J., fissandolo, avrebbe giurato che ondeggiasse leggermente, ma pensò distrattamente che fosse un'illusione ottica.
Mosse qualche passo lungo la strada. I vicoli ai suoi lati erano tutti ciechi: sembrava che potesse muoversi solo lungo il sentiero principale. Notò che, per quanto camminasse, non lasciava orme sulla strada, si chiese il perché.
Passò quello che sembrava un'ora, eppure il paesaggio non era minimamente cambiato: grotteschi edifici nelle vicinanze, pavimento polveroso e il campanile che ogni tanto spuntava da sopra i tetti sfondati. Si stava dirigendo proprio verso quell'unico punto di riferimento in mezzo a tale disarmante desolazione, ma in nessun modo si stava facendo più vicino.
Improvvisamente il sentiero si allargò un poco. Gli spazi tra le case, oltre ad essersi allargati, erano ora sormontati da diversi archi a sesto ribassato.
Per il resto, l'unico elemento inedito era quella che, da lontano, sembrava una bancarella, appoggiata contro il muro in fondo.
J. si affrettò per raggiungerla, elemento tanto ordinario quanto fuori posto in un luogo come quello in cui si trovava. Ovviamente non c'era nient'altro nei dintorni.
La bancarella era piena di frutta. Mele sulla destra, pere sulla sinistra, mandarini e aranci, al centro. J. fu sinceramente rallegrato dalla vista, e allungò la mano per afferrare una mela. Non aveva fame, ma sapeva che il solo gesto di tenerla in mano lo avrebbe fatto sentire meglio. Ma appena mise il dito sul frutto, una nausea indicibile lo travolse. Si allontonò di scatto, cadendo ginocchioni e boccheggiando, la mano che stringeva il ventre. Di sicuro gettare un ultimo sguardo verso la bancarella non aiutò molto il suo stato attuale, perché lo spettacolo che gli si parò davanti non fece altro che peggiorare la situazione.
Infinite larve, come gli abitanti indaffarati di una metropoli putrefatta, percorrevano in lungo e in largo i cesti di frutta, sempre che frutta fosse la parola adatta per descriverne il contenuto. Ormai era ridotta a poltiglia putrescente dal marcio colore. Il legno stesso era marcito e, oltre a brulicare di insetti, sembrava stesse per cedere da un momento all'altro. Il drappo rosso che faceva da tetto era forato e macchiato in più punti, e stralci dello stesso pendevano stancamente fino a toccare la massa brulicante sottostante.
La cosa che disturbò di più J. fu che non avrebbe dovuto reagire così a una vista simile. La sua era una reazione assolutamente esagerata, eppure non riusciva a spiegarsela. C'era un che di intrinsecamente negativo in quella vista, e sebbene con la ragione avrebbe potuto sopportarne la presenza, con l'anima gli era assolutamente impossibile. Mentre si voltava, zoppicando, felice di avere via libera verso qualsiasi altro luogo, vide che era apparsa una scritta sull'asse trasversale: NATURA MORTA.

Fu mentre voltava l'angolo, appena dopo lo scemare degli attacchi di nausa, che cominciò a sentirsi strano. Era una sensazione molto familiare: debolezza, torpore delle membra, vampate di caldo. Erano sintomi estremamente simili a quelli della febbre. In pochi secondo i capelli si inumidirono di sudore appiccicandosi alla fronte, la vista gli si annebbiò, e la gola urlava silenziosamente di dolore a ogni respiro.
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>> No. 2542
J. strabuzzò gli occhi, e prima che le lacrime si formassero era già di fronte al pargolo. Vestiva come il classico bambino delle elementari, con tanto di zainetto. A causa della sua abitudine di riempirlo fino all'inverosimile, lo facevano assomigliare a una curiosa forma di lumaca umanoide. Aveva la scarpa destra slacciata e J. con affetto pensò a come non ci fosse verso di fargliela riallacciare prima che si inciampasse, era sempre così.
-Oh, bambino mio!- esclamò. - perché? Cosa...? -.
Eppure non dava segnì di rilevare la presenza di J. Non era una statua, il padre avvertiva chiaramente il regolare alzarsi e abbassarsi delle spalle del bambino. Gli occhi non si muovevano, ma le palpebre sbattevano.
Semplicemente guardava un non ben determinato punto in lontananza, come assorto in contemplazione di un qualche spettacolo. Impalato lì sul posto.
Ignorando sul momento queste stranezze, J. si lanciò al collo del ragazzino per abbracciarlo, buttandosi in ginocchio, con la vista che, se non fosse stata già annebbiata dai fumi della febbre, lo sarebbe stato per le lacrime d'emozione.
Eppure suo figlio non muoveva un muscolo.
Nel cuore di J. la gioia lasciò il posto all'inquietudine profonda, con una rapidità che stupì persino lui stesso. Ma era troppo tardi. Le braccia e le gambe cominciarono a formicolare in modo incontrollabile. J. fece per staccarsi dal corpo ormai alieno, e invece cadde sulla schiena, con gambe e braccia completamente intorpidite. Guardò davanti a sè, in preda alla disperazione.
Gli occhi del bambino si erano ormai tramutati in pozzi più neri del vuoto, che spiccavano particolarmente sul pallore cadaverico del viso. Le pupille erano scomparse e non avevano lasciato la minima traccia della loro passata presenza. Ma pur senza pupille, J. sapeva che quegli occhi stavano osservando lui. Cercò di distogliere lo sguardo, ma non bastava ciò per scrollarsi di dosso le ondate di puro e muto disprezzo che fuoriuscivano dagli ovali bui.
E infine tutto divenne oscuro.
Nella strana forma di quasi-incoscienza in cui era piombato, l'unica cosa che riuscì a sentire fu la strada che scorreva sotto di lui, e non avrebbe saputo dire, in seguito, se stesse fluttuando o se stesse venendo malamente trascinato. Pur non sapendo dove, sapeva che si sarebbe svegliato solo quando sarebbe stato il momento.
E infine rinvenne.
Per la seconda volta il suo campo visivo fu invaso dal rosa malato del cielo. Stavolta però la luce soffusa che emanava pulsava con più rapidità, quasi con fretta disperata. Inoltre+ intorno a lui non c'era assolutamente nulla. I palazzi avevano lasciato il posto allo spazio desolato, e l'orizzonte era perfettamente sgombro da irregolarità. Si poteva persino distinguere la quasi impercettibile curvatura della Terra, come a J. piaceva sempre fare ogni volta che osservava l'orizzonte del mare.
Un vento impetuoso spazzava il suolo sollevando qua e là nugoli di polvere che sembravano avere l'apposita funzione di irritare le narici e gli occhi. Un ronzio inspiegabile allagava le orecchie e la mente di J., che non riusciva a distinguere se fosse un rumore reale, proveniente da qualsiasi cosa ci fosse là fuori, o se fosse un problema del suo organo uditivo.
Costrinse le sue stanche membra a sollevarsi dal suolo. E tremando terribilmente, chissà se a causa della febbre o per l'immagine palpitante degli ovali neri ancora impressa a fuoco nel suo occhio della mente, cominciò a muovere i primi passi.
Non ci volle molto prima che gli si parasse di fronte, a cinque metri di distanza, la donna che era sua moglie.
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No. 2534 hide watch quickreply [Risposta]
QUEL CROMOSOMA IN PIù

L'uomo sedeva su una sporca sedia rossa di plastica. Guardava in lontananza nel corridoio dell'ospedale, dove una vecchia arrancava con passo malfermo, ma la sua mente era altrove. Dopotutto stava per nascere suo figlio. La barba incolta e lo sguardo stanco testimoniavano lo stress che aveva accumulato fino a quel momento. Era in assoluto la prima volta che accudiva una donna incinta, ed era stata un'esperienza piuttosto spossante, sebbene la gioia di essere un futuro padre aveva illuminato le sue giornate.
Era in attesa che lo venissero a chiamare, non appena il bambino sarebbe nato. Aveva finito il repertorio di gesti da fare quando si aspetta nervosamente, e quindi reinizò pazientemente daccapo, mentre un certo fastidio allo stomaco si faceva sentire sempre di più.
Dicevamo, la sua mente era altrove, infatti fantasticava senza sosta sul futuro di suo figlio.I primi passi, la prima parola, le passeggiate, i suoi sorrisi, tutto questo si mischiava nella sua mente in un dolce turbine rosato, riempiendogli il cuore di felicità sincera.
E non solo, quando il bimbo sarebbe cresciuto, sarebbe stato sempre presente nelle sue piccole scoperte, così come nei primi sport. Gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta e già pregustava le lunghe pedalate nella foresta alla ricerca di un qualche scoiattolo da fotografare. E ancora, sarebbe venuta l'adolescenza, il periodo più problematico ma più stimolante. Lo avrebbe guidato attraverso il suo primo amore, gli amici e nello studio. Certo, non sarebbero mancati dissensi e litigi, ma aveva giurato di diventare un padre ragionevole, e avrebbe risolto tutto con il dialogo, da bravo padre moderno. Aveva già cominciato a risparmiare per potergli garantire la massima libertà nella scelta dell'università (perché ci sarebbe andato, all'università) ed era sicuro che avrebbe avuto successo diventando l'invidia del suo corso. E poi...
-Mi scusi, è lei il marito?-
L'uomo si alzò di scatto facendo sobbalzare all'indietro la sedia. Il suo sguardo però era ancora perso nei lasciti della sua fervente immaginazione, e balbettò qualcosa di incomprensibile in risposta.
- E' lei il marito della signora?-.
- Oh... Sì, sì. E' andato tutto bene? - I suoi occhi erano colmi di speranza.
- Prego, si accomodi - L'infermiera propose un sorriso cortese, ma un bravo fisionomista avrebbe notato una punta di tristezza. I suoi occhi erano rivolti leggermente verso il basso, come ad evitare il proprio interlocutore. Naturalmente l'uomo non notò niente di tutto questo visto che prima ancora che la donna potesse finire la frase, aveva già mosso un paio di passi sul pavimento in linoleum della stanza.
Sua moglie teneva in braccio la creaturina seminascosta dal candore dell'asciugamano. Lo stupore lo colpì per primo: non aveva mai visto sua moglie in uno stato del genere, ma non ci diede peso pensando al fatto che, dopotutto, era questa la natura delle cose. Una parte di sè ringraziò di non essere donna.
- Ciao caro, vuoi prenderlo in braccio? - il sorriso di lei era tanto solare da far scomparire in un attimo tutta la stanchezza sul suo volto.
Naturalmente l'uomo non se lo fece ripetere due volte e con la massima delicatezza raccolse il frutto dei propri lombi, del proprio sudore e del suo sangue.
Esplorando il volto della creatura, però, notò qualcosa di strano. Non riusciva bene a spiegarsi dove aveva già visto quei lineamenti, cosa davvero strana visto che era un bambino appena nato. Ma fu ben felice di mettere da parte quel pensiero inutile, mentre si godeva l'aspetto paffuto del proprio bambino, accarezzando i capelli sottilissimi.
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>> No. 2535
Riconobbe immediatamente la stranezza che aveva individuato poco prima. Erano i lineamenti di... quelli. Quei grossi Down che aveva visto tante volte in televisione, incerti, goffi, strani, sbavanti, farfuglianti, brutti, aberranti, abominevoli. Ecco perché gli assomigliava a qualcuno!
Nel momento in cui il naso gli si arricciò in preda al disgusto, aveva già preso la sua decisione.
Con mano tremante, chissà se per orrrore o per eccitazione, infagottò suo figlio con l'asciugamano, raccogliendo tutti i lembi in una mano, in modo da non lasciare nessun spiraglio. Con un unico slancio, sollevò il tutto sopra la testa, e calò la mano con forza mirando allo spigolo del comodino.
Non si sentì nessun verso oltre al rumore sordo dell'impatto e al traballare del comodino, nemmeno nelle tre volte successive. Il bianco dell'asciugamano diventava man mano sempre più rosso, e attraverso il tessuto si potevano avvertire i leggeri spasmi muscolari post mortem della creatura appena morta.
L'uomo rimase in piedi sul posto finchè non avvertì un movimento alle sue spalle: sua moglie si stava svegliando, seppur lentamente a causa della stanchezza, e decise che doveva agire. Si lanciò verso la finestra, la aprì, e con tutte le sue forze lanciò l'involucro quasi gocciolante. Riuscì a richiudere la finestra prima di sentire il tonfo liquido del macabro pacchetto.
-Caro, che succede?- sussurrò la donna con voce impastata dal sonno.
- E' tutto a posto, tesoro, tutto a posto -.
In un unico movimento prese la giacca e uscì dalla stanza, abbandonò l'ospedale, prese la macchina e cominciò quello che sarebbe stato un lungo giro in macchina. Un sorriso sereno era stampato sul suo volto.
>> No. 2536
MEZZORCHI IRL
>> No. 2537
Finito o continua?
>> No. 2539
Finito XD


No. 2521 hide watch expand quickreply [Risposta]
Visto che ad anonimo piace scrivere e le storie son interessanti, perché non fare una raccolta di storie brevi (del tipo una decina di pagine od anche meno) con magari un tema simile e poi pubblicare un ebook gratuito? Magari anche su un qualche store dove sia possibile pubblicare aggatis senza troppi fronzoli

Potrebbe venirne fuori un buon progetto secondo me
4 posts omessi. Clicka Risposta per vederli.
>> No. 2530
Beh, io ci sto anche, ma cosa facciamo? Tanti racconti a caso? Con un tema? Una storia dove ogni breve capitolo viene scritto da una persona diversa?
>> No. 2531
>>2530
il top sarebbe fare racconti alla io,robot.
Però secondo me anche l'idea di ogni capitolo scritto da una persona diversa è ok.
>> No. 2532
Facciamo che ci sono anche io, quando torno.
Mi piace di più l'idea di un tema e ognuno lo sviluppa a modo suo.
Scrivere ognuno un capitolo di una storia è molto difficile e implica troppa comunicazione per definire la trama ed evitare di lasciare plot-hole grossi come galassie.
>> No. 2533
>>2532
veramente è già stato fatto senza troppi problemi >>47
>> No. 2538
Rispetto a quando l'avevo lasciato (abbastanza recentemente, era TROPPO frustrante) /scr/ è decisamente esploso di vita, e in ogni caso sono il sesto.

>>2533
Questo.
Era divertente, ne ho anche scritto un capitolo.


No. 2518 hide watch quickreply [Risposta]
Ho fatto un sogno stranissimo la scorsa notte.
Sto spingendo una bicicletta per le strade della mia città alla ricerca di qualcosa o qualcuno. Non mi è chiaro, ma qualcuno mi ha dato appuntamento in un bar in Piazza Statuto. Il che è strano, perché la mia città non ha una piazza col quel nome. La città non è Torino perché le strade non sono rettilinee e ordinate come a Torino, e l'edilizia è completamente diversa. La piazza si trova sul lato destro del fiume, lato destro guardando verso i monti. Al centro della piazza c'è un giardino pubblico rialzato, gradoni molto alti lo separano dalla sede stradale. Attraverso gruppi di bambini che giocano a pallone, vecchi che parlano, mamme col passeggino. Un barista mi chiude la saracinesca in faccia, non è questo il posto. Un altro bar è troppo affollato, c'è gente che fa casino, nemmeno questo mi sembra il posto giusto. Infine arrivo sulla porta di un circolo poco frequentato. Questo è il posto giusto.
Entro, salgo le scale che portano alla sala interna.
Qui c'è gente che fuma, beve, discute animatamente. Un uomo abbronzato, molto alto e muscoloso mi riconosce e mi apostrofa: "finalmente ti sei risvegliato, pensavamo che non saresti più tornato anche se ti tenevamo d'occhio".
Non capisco. Continua: "da quando sei rinato aspettavamo che ti ripresentassi all'appuntamento". Tutti mi salutano, ma non sono certo di essere il benvenuto. Qualcosa non mi torna, non ricordo bene ma credo di non essere molto stimato da questa gente.
L'uomo che mi ha parlato per primo (probabilmente il capo) chiama una ragazza, ha i capelli lunghi e neri e la carnagione chiara. La riconosco immediatamente. Sono stato molto legato a lei "prima". Sono ancora molto confuso. Mi spiegano che il momento è vicino, il momento che aspettiamo da sempre. La fine di tutto, l'Apocalisse. Quello per cui ci stiamo preparando da secoli.
L'anticristo sta per essere concepito, in terra consacrata da un prete e una suora. Queste persone che si trovano nel locale, me compreso, sono destinate a combattere coloro che servono e aspettano l'anticristo, e a rinascere tutte le volte che muoiono combattendoli. A me è capitato una trentina di anni fa, a causa della mia insubordinazione. Ho causato la morte di molti altri, anche tra i presenti, e questa volta tutti si aspettano che faccia il mio dovere. Il capo mi dice che questa volta non c'è tempo di ripetere il condizionamento acui vengo sottoposto a ogni rinascita, perché siamo troppo vicini al momento che aspettavamo. In qualche modo mi sento sollevato e felice di ciò. Spera che io sia in grado di ricordare tutto quello che sapevo. Tutti gli altri invece sono già stati sottoposti al ricondizionamento e all'addestramento.
Per dimostrarmelo, e per darmi una lezione per l'ultima volta che ho disobbedito agli ordini, chiama la ragazza e recita una sequenza di numeri -ricordo 193636, forse è tutto qui- e il suo sguardo si appanna, e si spoglia e gli fa un pompino. Non riesco a reagire, sono paralizzato, lui mi ride in faccia e mentre me ne vado mi dice che non posso sfuggire ai miei doveri, ma che se voglio posso andare a parlare con il vecchio Newton, si è risvegliato da qualche tempo, non è rientrato nel gruppo e può darmi dei consigli utili. Dice che so dove trovarlo.
Non voglio andare da Newton, anche se qualcosa è scattato nella mia mente e saprei dove cercarlo. Riprendo la bici, entro in una scuola gestita da religiosi. Entro in varie aule mentre c'è lezione, mi confondo tra gli studenti ma qualcuno mi insegue. Scappo lungo un corridoio, cercano di prendermi e mi arrampico su una finestra, siamo al secondo o terzo piano, mi minacciano, mi butto.
La scena conclusiva del sogno è in una chiesa, la notte successiva. Una giovane suora sta pregando. Un prete le si avvicina, la palpa, la prende con la forza. L'anticristo viene concepito.

Non conosco nessuna delle persone coinvolte nel sogno, di solito quando sogno persone che conosco veramente le riconosco in sogno. Mi sono svegliato incazzato. Ho cancellato e ripostato perché non rileggo mai quello che scrivo, colpa mia.

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>> No. 2525
Stanotte ho sognato che pilotavo un elicottero o un'astronave, non ricordo bene, e il mio copilota era Ted Nugent. Non parliamone.


No. 2522 hide watch quickreply [Risposta]
In una serena notte di novembre, a ora tarda, dal garage di una grande villa della cittadina di Nerviano, in provincia di Milano, uscì velocemente una rombante Polo Volkswagen dell' 85. Il motore emetteva un terribile frastuono a causa del freddo e indugiava a partire, mentre i passeggeri volgevano qua e là sguardi inquieti. La vetusta dimora era stata dotata da poco tempo di un garage e di una vecchia auto. Oltre la siepe che incominciava a rinsecchirsi, v'era la porta del garage dipinta con vernice verde. Era evidente che, dopo un lungo periodo di quiete, la casa era nuovamente animata da un'insolita attività. Tuttavia erano in pochi a sapere in che consistesse tale attività. Presumibilmente qualcosa di assai differente da quella, aperta e comprensibile a tutti, esercitata dagli avi, che avevano fatto fortuna con il commercio ed erano diventati i più grandi venditori di legno della Lombardia. Serena, la figlia, una bella ragazza taciturna e riservata, passava di tanto in tanto per la strada con un grosso pacco di lettere: v'era chi la criticava per la sua abitudine di servirsi della posta centrale di fronte alla stazione, invece di recarsi all'antiquato ufficio postale distante soltanto due o tre case dalla sua villa. Nel pacco erano solitamente incluse alcune lettere provenienti da varie nazioni e indirizzate a lei. Nella notte profonda l'auto percorreva le ampie strade della pianura Padana, che pareva estendersi senza confini. Era Giovanni, il fratello, a guidare. Accanto a lui era seduta la sorella minore Serena. I genitori, i coniugi Brambilla, occupavano i sedili posteriori. «Abbiamo fatto bene a uscire presto», commentò Gualtiero Brambilla, il capo famiglia. «A volte si rischia di arrivare in ritardo, meglio partire in anticipo». «È vero, se tardassimo irriteremmo i nostri amici», assentì la moglie Caterina. I loro sguardi erano rivolti al finestrino anteriore, a fissare il cielo che gradualmente si oscurava fra le basse case con le luci spente. I quattro avevano occhi azzurri, belli e limpidi, una caratteristica di famiglia. Non incontrarono ombra d'uomo sulla strada. L'auto passò davanti alla Camera di Commercio, volse a destra e, in prossimità delle luci del commissariato di polizia, dove qualcuno vigilava, girò a sinistra e, poco dopo, raggiunse il capolinea degli autobus interurbani. Il candido e moderno edificio quadrato del Teatro Municipale spiccava in rilievo nel cupo grumo notturno. Dietro stava la loro méta.
Giovanni fermò l'auto sotto la grande vetrata del Teatro Municipale. Le luci esterne giungevano soffuse all'interno dell'edificio, con il soffitto spropositatamente alto e sedili per centinaia di ospiti. Una fila a semicerchio di poltroncine vuote fronteggiava il palco deserto. Quasi si specchiassero reciprocamente nel loro vuoto, tra i due elementi regnava un'armonia di tensioni ancor più profonda di quando il Teatro Municipale era gremito di gente. Dopo aver indugiato a sbirciare, Giovanni aprì il portabagagli dell'auto e ne tolse coperte e zainetti che contenevano cibarie. Li caricò in spalla, mentre gli altri componenti della famiglia portavano chi la macchina fotografica, chi gli occhiali, chi il thermos. Serena scese agilmente dal sedile vicino al guidatore: indossava jeans grigi e un vivace golf da sci, aveva una sciarpa di lana avvolta intorno al collo, con i lembi che le pendevano sul petto. Il suo bel volto pallido, reso seducente da un paio di grandi occhiali da vista in plastica nera, appariva ravvivato dalla notte. L'aria fresca le conferiva vitalità e la torcia che brandiva e che scuoteva energicamente per provarne l'efficacia, pareva un'arma nelle sue mani. Gualtiero, che era sceso dall'auto per ultimo, indossava un giaccone di pelle su un golf, mentre la moglie Caterina sfoggiava un abito elegante con una trama floreale in varie tonalità di blu e azzurro. Il capo famiglia, il baffuto Gualtiero che, a parte un breve periodo dedicato all'insegnamento, non si era mai impegnato in una professione, aveva un bel volto dall'ovale allungato, da cui traspariva la sua indole d'intellettuale. Il naso, lungo e sottile, pareva annusare intorno il profumo di solitudine e di malinconia da lui stesso emanato. A paragone del suo, il volto della moglie era comune e gioviale, simile a quello del figlio nell'espressione fiduciosa, e un poco ottusa. Incominciarono a salire per il pendio circondato da criptomerie incrociando i fasci di luce delle torce. Erano i soli a farsi varco fra le tenebre. Non un alito di vento smuoveva l'aria che gravava sulla pianura, e più salivano più aumentava il fruscio delle foglie degli alberi immersi nella notte. A poco a poco il cielo che si scorgeva fra le criptomerie assunse la tinta dell'acqua di un pozzo in cui le stelle brillavano con un fulgore sempre più intenso. Il fascio di luce della lampadina tascabile di Giovanni, che precedeva i familiari, metteva in rilievo il pietrisco lungo il sentiero largo e di scarsa pendenza. Svoltarono nel punto in cui sorgeva una stele di marmo e si trovarono su uno spiazzo erboso. Le loro torce illuminarono una fila di panchine deserte, lattine, preservativi usati e cumuli di cartacce. Non si udiva un grido d'uccello. Attraversato lo spiazzo il sentiero si assottigliò divenendo più erto. Il cammino proseguiva ripido.

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Nella terra erano infissi orizzontalmente dei tronchi per facilitare il passaggio, che tuttavia era spesso impedito in entrambi i lati da rocce e da radici: la luce delle torce esaltava rilievi e convessità della pietra e ne ingigantiva le ombre. Il fruscio delle fronde pareva aumentare. Avevano l'animo rapito dalla nobiltà del loro intento e neppure madre e figlia parevano intimorite. Con la luna anche quel paesaggio rurale si sarebbe rischiarato. Tuttavia la luna della notte precedente era ormai tramontata e, essendo il novilunio, la luce non avrebbe potuto certo fugare le tenebre. I quattro salivano l'impervio sentiero, che di giorno avrebbe potuto essere affrontato persino da un bambino, rincuorandosi a vicenda. Alla luce della lampadina tascabile apparvero quattro o cinque gradini di marmo smussati agli angoli che conducevano a un angusto spazio erboso. Gli scalini di marmo fra le ombre delle criptomerie parevano una cascata. «Finalmente siamo arrivati. Saliamo la scalinata e troveremo l'osservatorio astronomico», sospirò Gualtiero ansimando. «Però siamo stati bravi: abbiamo impiegato ventisette minuti a salire», constatò Giovanni avvicinando agli occhi il quadrante fosforescente dell'orologio da polso. L'osservatorio astronomico sorgeva su uno spiazzo ottenuto spianando il pietrisco e livellando il terreno per circa duecento metri. Nella parte settentrionale spiccava un piccolo obelisco, un ricordo della visita di Mussolini tanti anni fa. Nella parte meridionale non v'era nulla che impedisse la vista del cielo dalla cima all'orizzonte, oltre alle fronde di una bassa boscaglia e ai rami di due o tre contorti pini. A oriente si scorgevano le sparse luci di Milano, mentre sulla pianura Padana spiccavano con immutata intensità le luci verdi, rosse e gialle.
«Che ore sono?» «Le quattro meno sette minuti».
«Siamo stati fortunati ad arrivare prima delle quattro. Contavo di giungere qui almeno mezz'ora in anticipo». Salirono asciugandosi il sudore e si accorsero di quanto intenso fosse il freddo dell'alba di novembre.
Giovanni tolse dallo zaino una ruvida coperta e la stese sul prato lottando contro il vento che percorreva i boschi a settentrione, aiutato dalle due donne che si affannavano a rendere più gradevole quel posto. Caterina versò dal thermos un caldo tè nero nei bicchieri di plastica, quindi aprì un pacchetto contenente i panini. Ebbero infine agio di osservare il cielo stellato. «Il cielo è sereno e senza luna. Come siamo stati fortunati!» mormorò Caterina con voce tremula. Era un superbo cielo stellato, che difficilmente avrebbero potuto contemplare stando in città. Le stelle scintillavano nella volta notturna simile a una pelliccia di leopardo maculata. L'aria era straordinariamente limpida e le stelle vicine e remote avrebbero potuto mostrare nitidamente la profondità del cielo notturno, ma la luce si accumulava come nebbia e la volta celeste, offuscata dalla luminosità delle stelle, pareva tendere una rete a chi l'osservava. Serena notò che il numero delle stelle era tediosamente infinito: non vi appariva ancora alcun presagio dell'alba, il fiume latteo incrociava perpendicolarmente la superficie terrestre e il gran quadrangolo di Pegaso stava calando all'orizzonte. L'instancabile bagliore dell'infinito numero di stelle colmava il cielo di una sorta di tenuissima vibrazione di corda d'arpa. «Purtroppo», commentò Gualtiero con l'usuale tono nitido e franco, «questa volta né io né vostra madre potremo contemplare il nostro pianeta. Se potessimo scorgere anche solo una fievole luce, affiorerebbero alla nostra mente ricordi sopiti. Un tempo contemplavo la terra da Marte, il mio pianeta». «Già, in novembre è assolutamente impossibile scorgere Marte», obiettò con tono gelido Giovanni. «Perché sorge e tramonta quasi in perfetta sincronia con il sole. Ma è possibile vedere al crepuscolo Giove, il tuo pianeta, mamma». «Ieri sera ero impegnata, non sono riuscita a dargli neppure uno sguardo», sospirò Caterina. «Sarebbe bello se all'alba potessimo contemplare insieme i nostri pianeti natali». «Tra poco riuscirò a vedere il mio», annunciò Serena guardando con affetto il fratello. «Anche il mio. Certo, se lo paragono a quello dei terrestri...» obiettò il ragazzo.
La madre lo zittì ridendo: «È proibito esprimersi in questo modo. Qui nessuno ci ascolta, ma se tu parlassi così davanti agli umani rischieresti molto». Le loro spalle erano accarezzate da un vento fragoroso come le onde del mare, che scuoteva a intervalli pini e criptomerie, e all'improvviso riprendeva vigore e pareva precipitare come una valanga di neve. Le loro mani erano gelate, ciascuno aveva qualcosa da portare: la macchina fotografica o un cannocchiale, perciò non avevano indossato i guanti. Il vento trasportava incessantemente foglie secche e si udivano strani rumori, come il cigolio della porta di lamiera di un piccolo e deserto chiosco di porchetta poco lontano. Impercettibili, invece, i quieti movimenti delle costellazioni, le tre stelle di Orione che si allineavano nel cielo a sud-ovest in linea retta formando insieme a Rigel una sagoma simile a un aquilone. I quattro, che concentravano gli sguardi su una luce, furono sovente distratti da insignificanti fenomeni: una stella cadente, le luci anteriori di solitari veicoli che percorrevano la strada sottostante.
«Sarà visibile a meridione dalle quattro e mezzo alle cinque», spiegò Gualtiero continuando a osservare in quella direzione con il cannocchiale. «Tra dieci minuti giungerà il momento fatidico. Chissà che cosa ci comunicheranno i nostri fratelli. Quali misteri ci riveleranno... La Corea del Nord ha sperimentato una bomba nucleare di quindici chilotoni. Un terribile delitto potrebbe sconvolgere l'armonia dell'universo, se l'America, l'Iran o la Cina si trovassero contrapposte la fine dell'umanità sarebbe vicina. Evitare un simile disastro è la nostra missione, ma siamo ancora impotenti e la gente continua a essere apatica e tranquilla...»
«Papà, non perdere la speranza», lo consolò il figlio puntando qua e là il cannocchiale, «se paragonata al tempo che domina nell'universo, la nostra attesa è limitata. I terrestri non sono tutti stupidi. Verrà il tempo in cui comprenderanno il loro errore e torneranno alle nostre concezioni d'infinita armonia e di pace eterna. Ad ogni modo bisognerà scrivere al più presto una lettera a Obama».
«La sta terminando tua sorella. Ormai è quasi pronta, vero Serena?» «Sì», rispose laconicamente l'affascinante ragazza, il cui sguardo vagava fra le stelle.
Giunsero finalmente le quattro e mezzo. La famiglia ammutolì fissando il cielo con tensione e speranza.

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