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No. 2523
Nella terra erano infissi orizzontalmente dei tronchi per facilitare il passaggio, che tuttavia era spesso impedito in entrambi i lati da rocce e da radici: la luce delle torce esaltava rilievi e convessità della pietra e ne ingigantiva le ombre. Il fruscio delle fronde pareva aumentare. Avevano l'animo rapito dalla nobiltà del loro intento e neppure madre e figlia parevano intimorite. Con la luna anche quel paesaggio rurale si sarebbe rischiarato. Tuttavia la luna della notte precedente era ormai tramontata e, essendo il novilunio, la luce non avrebbe potuto certo fugare le tenebre. I quattro salivano l'impervio sentiero, che di giorno avrebbe potuto essere affrontato persino da un bambino, rincuorandosi a vicenda. Alla luce della lampadina tascabile apparvero quattro o cinque gradini di marmo smussati agli angoli che conducevano a un angusto spazio erboso. Gli scalini di marmo fra le ombre delle criptomerie parevano una cascata. «Finalmente siamo arrivati. Saliamo la scalinata e troveremo l'osservatorio astronomico», sospirò Gualtiero ansimando. «Però siamo stati bravi: abbiamo impiegato ventisette minuti a salire», constatò Giovanni avvicinando agli occhi il quadrante fosforescente dell'orologio da polso. L'osservatorio astronomico sorgeva su uno spiazzo ottenuto spianando il pietrisco e livellando il terreno per circa duecento metri. Nella parte settentrionale spiccava un piccolo obelisco, un ricordo della visita di Mussolini tanti anni fa. Nella parte meridionale non v'era nulla che impedisse la vista del cielo dalla cima all'orizzonte, oltre alle fronde di una bassa boscaglia e ai rami di due o tre contorti pini. A oriente si scorgevano le sparse luci di Milano, mentre sulla pianura Padana spiccavano con immutata intensità le luci verdi, rosse e gialle.
«Che ore sono?» «Le quattro meno sette minuti».
«Siamo stati fortunati ad arrivare prima delle quattro. Contavo di giungere qui almeno mezz'ora in anticipo». Salirono asciugandosi il sudore e si accorsero di quanto intenso fosse il freddo dell'alba di novembre.
Giovanni tolse dallo zaino una ruvida coperta e la stese sul prato lottando contro il vento che percorreva i boschi a settentrione, aiutato dalle due donne che si affannavano a rendere più gradevole quel posto. Caterina versò dal thermos un caldo tè nero nei bicchieri di plastica, quindi aprì un pacchetto contenente i panini. Ebbero infine agio di osservare il cielo stellato. «Il cielo è sereno e senza luna. Come siamo stati fortunati!» mormorò Caterina con voce tremula. Era un superbo cielo stellato, che difficilmente avrebbero potuto contemplare stando in città. Le stelle scintillavano nella volta notturna simile a una pelliccia di leopardo maculata. L'aria era straordinariamente limpida e le stelle vicine e remote avrebbero potuto mostrare nitidamente la profondità del cielo notturno, ma la luce si accumulava come nebbia e la volta celeste, offuscata dalla luminosità delle stelle, pareva tendere una rete a chi l'osservava. Serena notò che il numero delle stelle era tediosamente infinito: non vi appariva ancora alcun presagio dell'alba, il fiume latteo incrociava perpendicolarmente la superficie terrestre e il gran quadrangolo di Pegaso stava calando all'orizzonte. L'instancabile bagliore dell'infinito numero di stelle colmava il cielo di una sorta di tenuissima vibrazione di corda d'arpa. «Purtroppo», commentò Gualtiero con l'usuale tono nitido e franco, «questa volta né io né vostra madre potremo contemplare il nostro pianeta. Se potessimo scorgere anche solo una fievole luce, affiorerebbero alla nostra mente ricordi sopiti. Un tempo contemplavo la terra da Marte, il mio pianeta». «Già, in novembre è assolutamente impossibile scorgere Marte», obiettò con tono gelido Giovanni. «Perché sorge e tramonta quasi in perfetta sincronia con il sole. Ma è possibile vedere al crepuscolo Giove, il tuo pianeta, mamma». «Ieri sera ero impegnata, non sono riuscita a dargli neppure uno sguardo», sospirò Caterina. «Sarebbe bello se all'alba potessimo contemplare insieme i nostri pianeti natali». «Tra poco riuscirò a vedere il mio», annunciò Serena guardando con affetto il fratello. «Anche il mio. Certo, se lo paragono a quello dei terrestri...» obiettò il ragazzo.
La madre lo zittì ridendo: «È proibito esprimersi in questo modo. Qui nessuno ci ascolta, ma se tu parlassi così davanti agli umani rischieresti molto». Le loro spalle erano accarezzate da un vento fragoroso come le onde del mare, che scuoteva a intervalli pini e criptomerie, e all'improvviso riprendeva vigore e pareva precipitare come una valanga di neve. Le loro mani erano gelate, ciascuno aveva qualcosa da portare: la macchina fotografica o un cannocchiale, perciò non avevano indossato i guanti. Il vento trasportava incessantemente foglie secche e si udivano strani rumori, come il cigolio della porta di lamiera di un piccolo e deserto chiosco di porchetta poco lontano. Impercettibili, invece, i quieti movimenti delle costellazioni, le tre stelle di Orione che si allineavano nel cielo a sud-ovest in linea retta formando insieme a Rigel una sagoma simile a un aquilone. I quattro, che concentravano gli sguardi su una luce, furono sovente distratti da insignificanti fenomeni: una stella cadente, le luci anteriori di solitari veicoli che percorrevano la strada sottostante.
«Sarà visibile a meridione dalle quattro e mezzo alle cinque», spiegò Gualtiero continuando a osservare in quella direzione con il cannocchiale. «Tra dieci minuti giungerà il momento fatidico. Chissà che cosa ci comunicheranno i nostri fratelli. Quali misteri ci riveleranno... La Corea del Nord ha sperimentato una bomba nucleare di quindici chilotoni. Un terribile delitto potrebbe sconvolgere l'armonia dell'universo, se l'America, l'Iran o la Cina si trovassero contrapposte la fine dell'umanità sarebbe vicina. Evitare un simile disastro è la nostra missione, ma siamo ancora impotenti e la gente continua a essere apatica e tranquilla...»
«Papà, non perdere la speranza», lo consolò il figlio puntando qua e là il cannocchiale, «se paragonata al tempo che domina nell'universo, la nostra attesa è limitata. I terrestri non sono tutti stupidi. Verrà il tempo in cui comprenderanno il loro errore e torneranno alle nostre concezioni d'infinita armonia e di pace eterna. Ad ogni modo bisognerà scrivere al più presto una lettera a Obama».
«La sta terminando tua sorella. Ormai è quasi pronta, vero Serena?» «Sì», rispose laconicamente l'affascinante ragazza, il cui sguardo vagava fra le stelle.
Giunsero finalmente le quattro e mezzo. La famiglia ammutolì fissando il cielo con tensione e speranza.
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